IL PESO DELLE PAROLE: “MIGLIORARE” NON SIGNIFICA “CAMBIARE”

"Da queste considerazioni ritengo possibile ricavare una semplice conclusione: è proprio nella fase del miglioramento, quando si comincia a vedere la via d'uscita dalla stagnazione, che bisogna essere ancora più attenti, scettici, riflessivi." 

Alcuni imprenditori, nonostante il loro impegno nel fare emergere la performance aziendale da una fase di stagnazione, a volte ottengono scarsi risultati o addirittura fanno un passo indietro. Non si tratta di motivazione, della qualità del prodotto, della complessità del mercato: la stagnazione è spesso l'esito di un errore di prospettiva che conduce management e quadri aziendali ad adottare comportamenti inadeguati allo scopo.

Lungi dal volere elargire soluzioni certe e definitive al riguardo, ritengo che restino comunque praticabili ipotesi di lavoro che coinvolgono concetti quali miglioramento, cambiamento, innovazione. Si tratta di denominazioni a cui possono essere attribuiti più significati e tutti legittimi, pertanto giova definire cosa si intende qui con questi termini.

Nella quotidianità aziendale può accadere che si confonda il cambiamento con un semplice miglioramento dello stato delle cose, ossia quando si fa un po' meglio quello che già si faceva. Ad esempio si adottano le strategie di sempre in merito al recruiting, solo che si fa un po' più di attenzione a quale tipologia di curriculum si privilegia. Oppure si ha più cura dei tempi di durata di uno staff meeting, senza modificare null'altro (es. gli stili di comunicazione assunti dalla leadership). O si concede al personale qualche incentivo in più. O, ancora, si sceglie di trattare un prodotto più agevolmente commercializzabile o si spostano le persone da un ruolo all'altro, nella convinzione (o speranza) che quella persona possa produrre di più in un ruolo diverso. Tanti sforzi per fare le stesse cose, semplicemente un po' meglio: si ottengono pure risultati ma non di rilievo e non strutturali. Sono esiti a breve termine e comunque "a rischio".

Il cambiamento effettivo è un processo che non è immediatamente visibile: si tratta di una dinamica essenzialmente cognitiva che accade prima dentro le persone che vi sono coinvolte e solo dopo produce esiti tangibili. Che accada dentro significa che avviene un cambio di prospettiva o, come si dice in aziendalese, di mindset, ovvero viene spostato il punto di osservazione rispetto alla realtà ed ai comportamenti di sempre senza dare più per inamovibili le proprie convinzioni in merito.

A volte è necessario assumere, ad esempio, una prospettiva a medio/lungo termine, vale a dire che diventa utile stimare i risultati ottenuti - seppure positivi- alla luce dei possibili effetti disfunzionali rilevabili solo dopo settimane o mesi (significa, in sintesi, assumere come parametro di valutazione della performance non solo l'efficacia ma anche l'efficienza). Altre volte si tratta di rimodulare i rapporti tra i quadri aziendali trasferendoli da una dimensione personale ad una più specificamente aziendale: bisogna, cioè, imparare a comunicare più tra ruoli che tra persone.

In altre occasioni giova riconsiderare l'idea di collaborazione svincolandola da un'ottica convenzionale per tradurla in una dimensione professionale. Nella prima, infatti, collaborare spesso significa sostituirsi all'altro, fare le cose al posto suo perché non ha tempo oppure non ne è capace. Nella seconda collaborare implica un atteggiamento ben diverso, infatti si richiede ancora di più il rispetto del proprio ruolo e di quello altrui e ciò proprio per rinforzarne le relative competenze.

Il cambio di prospettiva include anche la visione che si ha del team di lavoro: ad esempio si intende privilegiare il talento individuale al posto del lavoro di squadra o viceversa? Si tratta di un interrogativo non di poco conto dal momento che la risposta coinvolge sensibilmente i metodi di recruiting e gli stili di leadership.

Diventa inevitabile, se non ci si vuole fermare alla fase del mero miglioramento, che si adotti un nuovo punto di osservazione anche rispetto all'ambiente esterno all'organizzazione: rapporti con i competitors, innovazioni tecnologiche, gamma di beni e servizi trattati, tipologie di candidati presi in considerazione per ampliare lo staff o fare fronte al turn over. Sono tutte variabili osservabili in un'ottica quotidiana e appiattita sull'attualità o in un'altra, invece, più specificamente professionale e che includa ipotesi sul futuro. 

Solo quando si concretizza il cambio di prospettiva allora si producono praticamente innovazioni in merito a prodotti e servizi immessi nel mercato, alle strategie di marketing e vendita, alle metodologie di recruiting e di gestione delle risorse umane e a tutti gli altri fattori che collaborano alla realizzazione della performance aziendale. Ovvero solo a quel punto si fa, effettivamente, qualcosa di originale.

Proprio per questo è opportuno tenere conto dei rischi che il management corre quando si verifica un miglioramento rispetto al calo di produttività: in questi casi, infatti, sia nella leadership che nel team può emergere la tendenza ad adagiarsi o, presi dall'entusiasmo, ad insistere. In quest'ultima circostanza non si fa altro che riproporre con ancora più vigore fisico e mentale quello che si è già fatto: ad esempio se si ritiene che il risultato sia stato raggiunto con un incentivo al personale allora si concede un incentivo ulteriormente ... incentivante. Se l'esito positivo è stato realizzato attraverso una scelta più accurata dei candidati allora si percorrerà la medesima strada ma con più attenzione. E così via. Il che può anche andare bene solo che, il più delle volte, questo meccanismo si inceppa e la performance ritorna ai livelli precedenti, se non ancora peggio. Questo perché:

  • non è certo che il miglioramento sia dovuto a quella che si ritiene ne sia l'origine (incentivo, cura nella scelta dei curriculum, ecc.);
  • l'azienda è un sistema organico: se si apporta un seppur minimo cambiamento in un settore, senza intervenire in quelli ad esso attigui, il risultato ottenuto presto o tardi evapora.

Per fare solo alcuni esempi:

-se cambiano i riferimenti che si adottano nella scelta dei candidati è opportuno modificare le modalità con cui si conducono i colloqui di selezione (es. griglie valutative, domande da porre al candidato, ecc.);

-se si contrae la durata degli staff meeting è bene rivedere tempistica, location, stili comunicativi della leadership.

L'ulteriore trappola in cui si rischia di incorrere in caso di miglioramento è, come accennato poc'anzi, accontentarsi dei risultati conseguiti e addirittura enfatizzarli. Ci si congratula con se stessi e con il team dell'obiettivo raggiunto ed intanto la realtà esterna (mercato, competitors, stili di acquisto dei consumatori, ecc.) prosegue nel suo inarrestabile mutamento. Anche la realtà interna all'organizzazione cambia, forse impercettibilmente eppure si modifica. Mutano le istanze di chi vi lavora, cambiano i rapporti tra quadri e tra management e personale, i nuovi ingressi veicolano all'interno - attraverso se stessi- le trasformazioni socio-culturali esterni. Dopo un po', inevitabilmente, ci si ritrova al punto di partenza: il fatto è che, intanto, le risorse materiali e immateriali dell'azienda sono al lumicino a causa degli sprechi generati dal rincorrere false soluzioni e ci si ritrova nella condizione della rana bollita descritta da Noam Chomsky: è troppo tardi per apportare cambiamenti concreti, strutturali e con effetti positivi a medio/lungo termine.

Da queste riflessioni ritengo possibile ricavare una semplice conclusione: è proprio nella fase del miglioramento, quando si comincia a vedere la via d'uscita dalla stagnazione, che bisogna essere ancora più attenti, scettici, riflessivi. È il momento in cui giova fare propria quella condizione mentale che, sempre in aziendalese, viene definita Growth Hacking: in pratica, non smettere mai di chiedersi cos'è accaduto effettivamente, quali ne sono state le cause effettive, quali possono essere gli esiti a breve e medio/lungo termine, cosa si poteva fare di diverso per ottenere un risultato ancora più soddisfacente e cosa si poteva fare, invece, affinché le cose peggiorassero.

Si tratta, in sostanza, di soffermarsi ad analizzare il successo, attività a cui i manager non sempre sono disposti e non per incapacità o cattiva volontà bensì perché, una volta centrato il bersaglio, sono impegnati a riprendersi dalla fatica mentale, fisica, economica consumata nel raggiungimento del risultato.

Analizzare le cause del successo, anche quando si tratta solo di un piccolo passo avanti rispetto alla stagnazione, tra l'altro è un'attitudine che in azienda non è sempre vista di buon occhio sia dal personale che dallo stesso management. Chi, una volta centrato il bersaglio, propone di restare con i piedi per terra e mantenere una buona dose di scetticismo può essere tacciato di pessimismo se non, addirittura, di demotivazione. Il contrario (o almeno così dovrebbe essere) accade quando le cose vanno male: si è pronti a fare riunioni, briefing, ad analizzare l'accaduto, a trovare soluzioni.

Il fatto è che proprio il miglioramento - dunque un momento della vita aziendale positivo- costituisce la condizione per realizzare quel cambiamento di mindset che poi produce innovazioni. Questo passaggio non può avvenire in una condizione di emergenza o comunque problematica: in simili circostanze il primo obiettivo è correre ai ripari, uscire dal tunnel. Proprio la fase positiva è quella in cui agire per acquisire flessibilità, per anticipare i problemi. Perché, come ci insegnano Chomsky e la sua rana nel pentolone, non è vero che ai problemi c'è sempre una soluzione: esistono problemi che costituiscono dei punti di non ritorno, a cui insomma non c'è soluzione o, se c'è, è oltremodo dispendiosa. O è troppo tardi per apportare qualsiasi rimedio: la rana è già bella è bollita (in questo caso, la rana è l'azienda stessa).

Fatte queste considerazioni, vale la pena ricapitolare alcuni spunti di riflessione:

· il miglioramento è lo scenario ottimale in cui agire per operare il cambiamento e le conseguenti innovazioni;

· proprio quando le cose vanno bene, o un po' meglio, giova non dormire sugli allori ed attivarsi per precorrere i cambiamenti futuri. Farsi trovare impreparati è causa di problemi e, perciò, è bene prevenirli in quanto:

· non sempre ai problemi c'è una soluzione: esistono problemi che costituiscono dei veri e propri punti di non ritorno;

· la soluzione può anche esserci ma o è troppo dispendiosa o la criticità si è così radicalizzata nell'azienda da renderla inutilizzabile;

· non sempre un problema costituisce un'opportunità;

· non è vero che, come ci propinano da decenni i form-attori e i vari guru, non esistono problemi ma solo soluzioni.

Come il buon senso ci suggerisce da tempo immemore, prevenire è meglio che curare. Perché, cari manager, ricordate che a volte la cura o non c'è o, quando c'è, costa e a volte a tal punto che si è costretti a tenersi il malessere.



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