“L’AZIENDA È FATTA DI PERSONE”. QUINDI?

A queste culture manager innovativi, oggi, oppongono un sistema di pensiero e di comportamento che si poggia su valori messi nell'angolo dai residui di rampantismo anni '90. Valori che non rappresentano certo delle novità eppure, nel panorama odierno fatto per lo più di modelli organizzativi ancora condizionati dall'elemento motivazionale e dal volere è potere, risultano particolarmente avanzati"

Da quando Elton Mayo (1880-1949) introdusse, nel mondo delle Imprese, il concetto di risorsa umana 1) l'affermazione "l'azienda è fatta di persone" è stata talmente reiterata da manager, imprenditori, formatori, responsabili GRU da trasformarsi in una sorta di luogo comune. Il medesimo assunto a volte viene tradotto in "Le radici di un'azienda sono le persone" oppure "Se le persone in azienda stanno bene, sta bene anche l'azienda" ed altro ancora.

La centralità della persona all'interno di una Organizzazione è fuori discussione, sia chiaro. Ciò che qui si intende porre come oggetto di riflessione è che, lì dove essa è stata mal interpretata, sono stati prodotti scompensi di non poco conto riguardo alle modalità con cui le governance aziendali hanno affrontato la gestione della risorsa umana in funzione di una più elevata perfomance.

Tali distorsioni interpretative hanno causato, particolarmente nei decenni passati, due linee di pensiero che si sono tradotte in altrettante culture, dove per tali intendiamo un insieme di valori e di idee che generano specifici comportamenti in coloro che ad esse aderiscono.

Tali orientamenti possono essere sintetizzati in

  • cultura motivazionale;
  • cultura della crescita personale.

La prima, nell'illusione di valorizzare la persona, ha reso protagonista esclusivamente il risultato finale del processo produttivo. Singoli e team sono spinti verso la meta senza che ci si preoccupi di quali strumenti dispongono. Non ci si preoccupa della congruenza tra risorse materiali ed immateriali di cui singolo/ collettivo sono dotati e lo spessore dell'obiettivo fissato dal leader, dal management o dagli stessi interessati. Non a caso in questo scenario la stessa formazione si traduce in intervento motivazionale o pseudo-tale

La cultura della crescita personale, complementare alla prima, ha generato a sua volta:

  • un clima aziendale teso prevalentemente a fare stare bene la persona, che è certo un imperativo etico/umano/ produttivo imprescindibile. Il fatto è che, in alcuni contesti, quest'obiettivo ha offuscato il valore dell'apprendimento, del praticare un metodo, dell'importanza di ruoli e competenze generando, perciò, una vischiosa confusione tra dimensione familistico/gruppale e dimensione professionale.
  • una conseguenziale e limitante congiunzione tra privato e sociale, tra persona e ruolo, tra lavoro e vita. In tal modo la cultura della crescita personale ha acquisito un posto in prima fila tra i motivi della pervicace resistenza al cambiamento che in azienda, spesso, caratterizza chi in essa lavora. Non c'è da stupirsi: quando si sollecita l'identificazione tra ruolo e persona, tra identità personale e posizione gerarchica ogni minima ipotesi di cambiamento viene vissuta, dal singolo come dal collettivo, al pari di una messa in discussione dell'intera personalità.

Simili orientamenti, se hanno generato disfunzioni organizzative e produttive in passato, figuriamoci quanto siano limitanti oggi, con l'impresa che si trova a gestire dinamiche di mercato particolarmente complesse.

A queste culture manager innovativi, oggi, oppongono un sistema di pensiero e di comportamento che si poggia su valori messi nell'angolo dai residui di rampantismo anni '90. Valori che non rappresentano certo delle novità eppure, nel panorama odierno fatto per lo più di modelli organizzativi ancora condizionati dall'elemento motivazionale e dal volere è potere, risultano particolarmente avanzati.

Ci riferiamo all'apprendimento e al fare. 

Cosa intendiamo con questi termini?

-apprendimento: è una dinamica cognitivo/esperienziale che include nuovi modelli di pensiero e pratica d'aula.

Per nuovi modelli di pensiero si intende il superamento della convinzione che un lavoro, specialmente nel settore dei servizi, possa essere svolto sulla base di qualità specificamente personali: attitudini, aspettative, motivazione.

Nessuno, qui, intende svilire l'importanza di tali caratteristiche. Si vuole sostenere, però, che esse sono da integrare con metodi e strategie di lavoro che giungono dall'esterno, che vanno, appunto, appresi e che spesso suppliscono a mancanza di esperienza e/o a carenze attitudinali. Quindi, prima di fare, bisogna imparare cosa fare e come farlo.

Tale orientamento, di questi tempi, cozza contro la diffusa svalutazione del sapere in genere e della complementare super-valutazione della cosiddetta università della strada.

-fare: non è la semplicistica pratica. Il fare, qui inteso, è la sperimentazione dei contenuti, e delle procedure apprese, seguendo modelli di strategia comportamentale delineati preventivamente. È un fare non casuale, non ritmato dalla sequenza prova ed errori: è un fare che prevede un costante rimando al sapere, all'aula di formazione, allo studio. Che richiede non il crederci ma certamente vuole, da persone e collettivi, la disponibilità ad osare, sperimentare, fermarsi e riflettere per poi realizzare un nuovo fare (e non un semplice ri-fare).

La connessione tra queste due dimensione dà alla persona non solo mete congrue, ancorché ambiziose, ma anche adeguati strumenti emotivi/cognitivi/comportamentali per realizzarle.

Così facendo si realizza effettivamente e produttivamente la centralità della persona all'interno della Organizzazione.


1) Cfr. G. B. GABASSI, Psicologia del lavoro nelle organizzazioni, FrancoAngeli, Milano, 2007.

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